I fogli nel cassetto #14: Chiusi, ma con la porta aperta
di Ugo Canfora. –
Credo di ricordare con precisione la prima volta che da bambino ho preso in considerazione il significato di abitare su un’isola.
Ovviamente, a quell’età, i pochi chilometri quadrati del proprio paese sono praticamente il mondo, ma ricordo un episodio risalente ai tempi delle elementari. Studiavamo il terremoto del 1980, del quale, essendo al tempo ancora molto piccolo, avevo solo qualche vago ricordo. Quindi, cresciuto un po’ e tornando sull’argomento a scuola, la mia prima preoccupazione fu di informarmi in giro se a Capri sarebbe potuta succedere una cosa simile. Fui rassicurato con un “Ma no, qua non potrà mai succedere…”. E alla mia richiesta del motivo, qualcuno con buon cuore, trovandosi di fronte un ragazzino terrorizzato, rispose: “Perché attorno a Capri c’è il mare…”. Al di là della precisazione scientifica di questa affermazione, la cosa mi rassicurò tantissimo e credo proprio che fu la prima volta che iniziai, con l’approssimazione di un bambino, ad elaborare il concetto di insularità.
Sono poi cresciuto negli anni dei “Qua noi possiamo lasciare la porta aperta la notte”, “A Capri siamo fortunati, non succedono le cose che succedono a Napoli” e tutto il repertorio dei capresi privilegiati.
Ad un tratto, però, la musica è cambiata, ed ora mi rimane il dubbio: ero io che fino ad una quindicina-ventina di anni fa ho vissuto con la testa completamente fra le nuvole, o tutto il paese si è bruscamente svegliato da un sogno collettivo?
Il nostro essere separati, diversi, il mare, quello fra Capri e Napoli e quello fra il “dire e il fare” sono diventati i nostri handicap, il nostro nemico. Quel mare che dobbiamo scavalcare in caso di urgenze e di emergenze – e con la nostra vita in ballo non ci interessa se tramite nave, elicottero o dirigibile – è anche uno dei fattori che penalizza ancora di più quella parte di popolazione isolana che è mortificata dal problema abitativo.
A terraferma, quando tutto manca, ci si può spostare cinque, dieci o anche cinquanta chilometri più in là, senza perdere i legami con la propria terra, i propri affetti, i propri interessi.
Qui non è possibile. Il nostro senso di prigionia, che a volte poi sfocia in una vera e propria “sindrome di Stoccolma”, ci porta anche a sentirci sempre sotto assalto da quelli che vengono “da fuori”, creiamo barriere inutili, mentre lasciamo la nostra porta “senza chiave dietro” come ci piaceva dire un tempo, alla mercé di coloro che qui vogliono fare solo i propri interessi.