Un caffè con Capri #3 – La promessa

Michele Di Sarno. –

Ci eravamo lasciati con gelida amarezza, sei mesi fa: ma non credo fosse questo il motivo per cui abbiamo interrotto i nostri incontri. Nel frattempo, mi sono fermato davanti al suo, forse nostro, bar ogni volta che la normativa vigente lo ha permesso: lei non c’era mai.

Ecco che ora, al mio ormai abituale passaggio, mi sento chiamare dal cameriere che è solito occuparsi del nostro caffè: “La signora può riceverla nella sua villa”. Capisco subito che non è il caso di ironizzare sul fatto che Capri, da sempre generosa ma sofferente per il cemento che la abita, si sia addirittura concessa una villetta tutta per sé: nel preciso momento in cui sto per chiedergli dove si trovasse tale dimora, l’anziano signore in camicia e gilet mi fa segno di entrare nel bar.
Attraversiamo una porticina nascosta dietro l’imponente macchina del caffè e ci ritroviamo – con mio e solo mio stupore – in un cortile curatissimo e infinito, con carrozze d’epoca semplici, cavalli e asinelli meravigliosi. “Sembrano quelli che portavano i turisti in giro per l’isola nei tempi d’oro”, esclamo sorpreso.

Un sorriso accennato del cameriere mi lascia intendere che questo posto trabocca di nostalgia ma non ho il tempo per cogliere tutti i dettagli: la signora è sulla porta: “Entri pure!”, mi esorta con la sua voce gentile. Questo posto, credetemi, esiste ma non c’è.
“Bravo, ha la mascherina!”, mi dice con un tono abbastanza canzonatorio da farmi capire che almeno qui, nonostante questo sembri il luogo più surreale del mondo, ci si può rilassare come se fossimo tornati alla normalità: altro che zona bianca!

“Lei è l’unico che mi ha cercato così insistentemente, sa?”, mi gela. Come sempre, ha un’abilità straordinaria nel fare osservazioni senza lasciar capire se ha un giudizio positivo o negativo nel merito. Sorseggiamo i caffè caldi e rassicuranti.
“Mi deve scusare, in questi mesi la confusione della vostra calma mi ha stranita, ho visto troppe persone non raccapezzarsi con i conti, troppe lacrime versate in una valle che da decenni dà alla luce frutti a sufficienza per tutti. Mi sento in colpa pur non avendone affatto.
La cosa che più mi ha colpita è stata la vostra reazione ai limiti che vi hanno imposto per le festività natalizie, giornate a cui, solitamente, siete tanto attaccati. Non un bambino eccessivamente triste, non un ragazzino ribelle: mi spaventa la loro assuefazione, il loro essersi riprogrammati su questi codici, come se rappresentassero la nuova normalità.
Devo riconoscere – glielo dica, lei che scrive – che mi manca il rimbombare delle pallonate negli spiazzi, i lamenti dei più piccoli che si dicono stanchi per le lunghe passeggiate, così come ho nostalgia del buffo fotografarsi insieme dei ragazzi in quei posti senza tempo che gli riscaldano i cuori, anche se non lo ammettono.
Dica loro, la prego, di tornare a fare tutto questo appena potranno”.


Su questa promessa, rientro nel nostro mondo, non senza accorgermi che nel cortile, poco lontano da una di quelle carrozze in sosta con il “ciucciariello” a riposo, c’è una giovane donna che gusta un caffè con panna: ha un aspetto importante, nonostante una semplice maglietta arancione e un foulard azzurro, con su degli occhialoni da sole, a coprire la chioma scura. Fingo di non credere d’aver visto Jackie.