Scrivo da Capri #6 – Io inciampavo

Non era tanto il dolore a darmi fastidio, quanto il dover nascondere i lividi e le ferite per non essere l’oggetto di scherno per i miei compagni. Io inciampavo spesso nel salire e scendere i marciapiedi o le scale, forse perché non riuscivo a regolare di quanti centimetri dovessi alzare o abbassare il piede. Cadevo tutti i giorni mentre andavo o tornavo da scuola, graffiandomi i gomiti e le ginocchia. Le mie gambe e le mie braccia erano come la tavolozza di un pittore, con tutte le variazioni di colore del viola, del marrone e dell’azzurro.
Per fortuna, tutte le volte che inciampavo, riuscivo a mettere le mani avanti e non battevo la faccia, altrimenti sarei costato una fortuna all mia famiglia con il cambio degli occhiali. E sì, forse erano proprio gli occhiali che mi facevano inciampare sempre. Ero nato con una forma di miopia giovanile e sin dall’età di quattro anni, ho portato gli occhiali. Mia madre si era accorta che aggrottavo la fronte per guardare lontano e mi portò dall’oculista.

Non sapendo leggere, mi fece riconoscere le forme all’ottotipo: casa, fiore, pesce e automobile. I primi occhiali avevano la montatura pesante di osso di tartaruga, proprio perché mio padre si era accorto che cadevo sempre e aveva paura che mi si rompessero. Ogni anno cambiava la diottria e dovevo aggiornare le lenti, ma nonostante la correzione, io inciampavo sempre e avevo tanti lividi addosso e il nastro adesivo a tenere unito il ponte degli occhiali incollato. Di giocare a pallone non se ne parlava proprio. Dovevo accontentarmi di guardare i miei compagni correre dietro alla palla e gioire per un gol, seduto sul muretto o sulla panchina. Avevo provato anche ad andare in bicicletta, ma anche lì cadevo spesso. Avevo difficoltà a scrivere, perché i lividi che mi procuravo ogni volta che inciampavo, mi facevano provare dolore alle braccia e alle mani. La maestra si lamentava della mia calligrafia tremante e poco chiara. Non mi chiamava mai alla lavagna, perché facevo fatica a scrivere in alto e i miei compagni non comprendevano quello che scrivevo. Una mattina, mentre stavo provando a scrivere un tema, entrò in classe un signore accompagnato dal direttore. Parlò a bassa voce con la maestra, poi vidi che indicava me e fui invitato a uscire dalla classe. Mi portarono in una stanza e mi chiesero come mai avessi le braccia e le gambe piene di lividi. Io glielo dissi che inciampavo spesso, anche due o tre volte al giorno e cadendo, mi facevo male. Mi proposero di fare un gioco: dovevo camminare su una fila di mattonelle con gli occhi chiusi e le mani dritte avanti, fermandomi appena avessi toccato il muro di fronte. Era divertente, però avrei voluto che ci fossero anche i miei compagni a giocare con me. Quando tornai a casa, mio padre e mio fratello mi chiesero di quello strano gioco. Feci vedere loro di cosa si trattava, ma dopo tre passi, mi trovai a terra, con un altro livido. A casa non mi riusciva bene camminare a occhi chiusi.

La mattina successiva, la maestra mi chiese se fossi inciampato di nuovo e le dissi che ero caduto mentre facevo vedere a mio padre come era quel gioco della fila di mattonelle. Lei mi alzò le maniche della camicia per vedere i miei nuovi lividi. Dopo pochi minuti tornò il signore del giorno prima, accompagnato dal direttore e da due carabinieri. Mi portarono all’ospedale a medicare le ferite e mi misero delle pomate dappertutto. Quando tornai a casa, trovai mia madre che piangeva. Mi disse che papà era andato a lavorare in un paese lontano, però io da quel giorno non sono inciampato più e non ho più lividi addosso.

Guido Rella