Un caprese trapiantato a Milano

di Walter Cerrotta. –

Pubblichiamo la testimonianza di Walter Cerrotta, attore e cantante originario di Anacapri.

“Vivo a Milano dal 2008 e da anni sento sempre più forte il legame con la mia isola: la Settembrata, le processioni, le bancarelle sul porto di Marina Grande, le scampagnate con gli amici a pasquetta… la lontananza rende tutto più caro, tutto più emozionante.La sera del 20 febbraio ero al Teatro Alla Scala di Milano per assistere alla prova generale de Il Turco in Italia di Rossini; la mattina dopo, alla notizia del primo caso di Covid-19 nel comune di Codogno, ho deciso di chiudermi in casa, da solo. Tutti i miei amici mi hanno preso in giro: mi dicevano che ero esagerato, che la mia ipocondria mi faceva vedere cose che non esistevano… non meno di 48 ore dopo in Lombardia è stato chiuso praticamente tutto, o quasi. Il 6 marzo, la sera dell’esodo da Nord a Sud, durante il discorso di Conte che annunciava la chiusura della Lombardia, ho sentito una stretta fortissima allo stomaco e preso dal panico ho sprecato circa due secondi immaginando di fuggire alla stazione e infilarmi sull’ultimo treno per Napoli… in quei due secondi il mio cervello ha avuto un blackout: due secondi per toccare il fondo e velocemente risalire, indimenticabili.
Sono un attore e un cantante; nella decisione di chiudere tutto, teatri compresi, ho perso contratti, provini, incontri e possibilità future e, in questo lunghissimo periodo di solitudine, la rabbia e lo sconforto hanno spesso preso il sopravvento, tanto da litigare al telefono con la mia famiglia, con i miei amici.
Sui social gira una marea di vignette e audio divertenti, ma quello che meglio descrive il mio stato all’inizio di questa emergenza è quello di una donna che in una nota audio dice: “Comunicato del sindacato nazionale degli psichiatri. Cari concittadini, poiché siamo inondati da chiamate, vi informiamo che durante il periodo della quarantena è assolutamente normale parlare con i muri, con le piante e con altre cose; vogliate contattarci soltanto se vi rispondono, grazie”. Oltre agli spunti divertenti, però, spesso ho letto ragionamenti davvero aggressivi sui giornali, su Facebook, nelle chat di gruppo di Whatsapp. Il duro periodo di quarantena sta diventando a poco a poco sempre più sfiancante e ai canti sul balcone alle 18 si è sostituita la frenesia da tastiera. Sulle bacheche Facebook di molti capresi ho letto, sgranando gli occhi, pensieri estremamente contorti, arroganti, sprezzanti e anche diffamatori che mi hanno investito come un’onda potentissima. Un esempio: della signora positiva al Covid-19 e residente a Marina Piccola sono state fornite informazioni private circa la sua vita sentimentale, la sua età, il suo numero civico e anche il civico della sua seconda casa, nonché il civico dell’entrata posteriore della sua abitazione. Incredibile come sia facile andare “fuori traccia” e come il confine tra ciò che è giusto e ciò che è orribilmente sbagliato diventi invisibile.


Poi domenica 5 aprile ho letto casualmente sulla bacheca di Concetta Spatola, una persona che non conosco nemmeno di vista: “Oggi è la domenica delle Palme. Ognuno di noi è in famiglia. Abbiamo un passo importante da fare per Capri: portare qui tutti i ragazzi che sono ancora fuori, da soli… usiamo tutte le condizioni e i presupposti per la sicurezza. Ma portiamo a casa i figli di Capri…” ed ecco che finalmente ho riconosciuto lo spirito partenopeo e profondamente di cuore del posto in cui sono cresciuto: un ragionamento bellissimo che lava via (anche se a fatica) settimane di linciaggi, offese, ripicche e volgarità. Ognuno di noi, troppo spesso, davanti al proprio telefonino o pc sfoga le sue tensioni, ma credo che, in una comunità piccola come Capri, debbano essere tenute a bada per non creare ulteriore confusione e disinformazione, che a loro volta fanno aumentare il livello di stress e paura generale, come un cane che si morde la coda.

A Capri vi è stata concessa una piccola, grande fortuna anche in un momento così drammatico: vivere la quarantena in contemplazione della straordinaria natura che vi circonda. Qui a Milano, dove l’emergenza è tristemente più acuta, al mattino non sono svegliato dal canto degli uccellini, bensì dallo strillo delle sirene delle ambulanze che mi accompagna tutto il giorno, tutti i giorni.
È vero, la Campania sotto un profilo sanitario soffre mancanze e lacune e l’ospedale di Capri ne è un esempio scellerato, ma posso assicurare che anche nella “fantastica sanità lombarda” si vivono ore di paura: un mio amico di Brescia, trovato positivo al Covid-19, è stato trasferito in ospedale fuori regione insieme alla madre, positiva anche lei. Pochi giorni fa, dall’ospedale mi ha scritto che, nella sfortuna, era felice di essersi ritrovato malato contemporaneamente alla madre e di essere stati ricoverati insieme, perché il pensiero che lei potesse vivere da sola un’esperienza del genere lo avrebbe distrutto. Mi ha scritto: posso tenerle compagnia e controllare che mangi.
Qui a Milano i casi non sono 2 e il rischio è costante ogni volta che si esce per fare la spesa (io ogni 2 settimane), perché si ha a che fare con centinaia di persona asintomatiche, centinaia di persone uscite da sintomi febbrili e influenzali ai quali non è stato fatto un tampone, assenza di mascherine, di guanti.
Andare a fare la spesa ti impiega circa 4 ore, perché le file al supermercato sono infinite e la spesa a domicilio va prenotata con 2/3 settimane di anticipo. Tutti gli esperti ci dicono che con questo “mostro” saremo costretti a vivere per mesi, che le nostre abitudini cambieranno, che non sarà possibile tornare alla vita di prima con tanta facilità, che saremo in affanno economicamente, che ci rialzeremo con fatica. Qui a Milano la convivenza con il virus è cominciata ormai da più di un mese e, per quanto assurdo possa sembrare, ci stiamo pian piano abituando all’idea.

Per spazzare via la rabbia e lo sconforto che nominavo prima, io ho cominciato a pensare a chi sta molto peggio di me, a chi è a casa con sintomi gravi e non riceve un tampone perché i reagenti e tamponi stessi scarseggiano, a chi sta a casa in attesa della telefonata dall’ospedale per ricevere notizie dei propri cari ricoverati, a chi ha perso qualcuno e non ha potuto tenergli la mano nel salutarlo, a chi dalla finestra ha visto una persona amata portata via nella bara da un carro dell’esercito, a chi vive la sua quarantena in un basso al centro di Napoli. Anche una pandemia può creare tristi disuguaglianze, per cui chi ha un poco più degli altri è fortunato se riesce a farne tesoro.
Il 6 marzo la paura non mi ha vinto, non mi ha spinto a correre alla stazione, ma non per questo mi sento migliore di nessuno e anche se non so quando potrò riabbracciare la mia famiglia o i miei amici a Capri, o banalmente anche i miei amici a Milano, mi fa sentire meglio, meno solo, e più felice che qualcuno che non conosco pensi a me in un post su Facebook, solo perché faccio parte di una comunità, di un posto bellissimo che posso chiamare “casa”.